Pedofilia e Chiesa: quando il lupo cattivo ha la grazia di un angelo (due testimonianze)

di Tiziana Pasetti – (L’articolo è stato pubblicato sul settimanale Donna Moderna) “Il mio dispiacere per l’abuso che avete subito è immenso. La vostra innocenza è stata violata proprio dalle persone in cui avevate più fiducia”. Con queste parole, nell’ultimo giorno della sua visita pastorale negli Stati Uniti, Papa Francesco ha chiesto scusa davanti al mondo intero a cinque vittime rassicurando loro che Dio non li ha dimenticati. In linea con il suo predecessore Ratzinger, ha invitato chiunque sia stato oggetto di attenzioni sessuali da parte di un prelato a non avere paure e denunciare. A pochi passi dall’altare un gruppo guidato da Barbara Dorris, direttore del Survivors Network of Those Abused by Priests, ha chiesto qualcosa di più: sanzioni reali, certe, di carattere penale, perchè, ha affermato la Dorris, “Non sono le parole a proteggere i bambini ma le azioni”.

Dopo neanche una settimana dal mea culpa la dichiarazione di un sacerdote trentino, don Gino Flaim, dimostra però quanto la Chiesa non si sia ancora allineata alla visione illuminata dei due Pontefici. Secondo il prete, subito revocato dall’arcidiocesi dal suo incarico pastorale e dalla facoltà di predicazione, la responsabilità è molto spesso dei bambini: “Cercano affetto perché non ce l’hanno in casa. Allora può capitare che qualche prete ceda. E’ un peccato. Ma i peccati vanno anche accettati”.

“La nostra società – ci spiega Vittorio Sconci, psichiatra e psicoterapeta – è concettualmente aperta ai grandi cambiamenti ma il singolo, nella sua esperienza quotidiana, è molto più conservatore di quello che si può credere. L’idea che un prete possa fare del male ai nostri figli è altro da noi, entra in collisione con la necessità che abbiamo di credere nel Bene rappresentato da una figura terrena ma vicaria. Il grande scatto verso la civiltà avverrà quando chi deve denunciare saprà di poter contare sulla solidarietà e non sul giudizio della comunità in cui vive. La denuncia, da sola, non basta e non serve per superare meglio il trauma. Solo il rispetto può far capire a chi ha subito un abuso che essere vittima non è una colpa e neanche una lettera scarlatta”.

Per cercare di capire più a fondo, ho ascoltato Giorgio e Laura; due vite, un uomo e una donna. Due bambini. Due storie spezzate.

nvdpp

 Io, che non ho denunciato

 (storia di Giorgio, 40 anni)

 Quando sei un bambino ti raccontano le favole. E nelle favole il cattivo è riconoscibile: sono condannabili le sue azioni e il suo aspetto è repellente. Ho sempre frequentato gli ambienti ecclesiali, il fratello di mio padre è sacerdote e una zia di mia madre era suora. La chiesa, anche se ero un ragazzino ribelle, l’ho sempre considerata come un’altra stanza della mia casa. Avevo 12 anni quando arrivò Don Claudio. Giovane, carismatico, così diverso da tutti i preti che avevo conosciuto fino ad allora. Capiva noi giovani, i nostri tormenti, le pulsioni che cominciavano a tenerci svegli di notte. Con lui potevamo parlare di tutto. Nulla è peccato, ci diceva. Dio ci ama e vuole la nostra serenità. I nostri genitori erano felici: sapevano dove eravamo. I compiti con Don Claudio, le gite domenicali, la catechesi. Eravamo al sicuro. Come si può raccontare un abuso? L’abuso può cominciare con un braccio intorno alle tue spalle. Con una presenza che diventa indispensabile. Con una carezza sulla guancia che cominci a cercare tu perché a casa ti hanno sgridato per un brutto voto e invece Don Claudio ti sorride e ti assicura che la prossima volta andrà meglio e ti abbraccia e le sue mani sono calde, forti. Un abuso dovrebbe essere graffio, ferita. Odio. Dovrebbe essere chiaro. Immediato. Non dovrebbe essere un abbraccio che diventa sempre più stretto e un respiro sul tuo collo. Quando sei ancora un ragazzino certe cose non le capisci. O forse sarebbe meglio dire che non le vuoi capire. Claudio aveva carezze per me prima. Durante. Dopo. E i suoi occhi non hanno mai avuto ombre. Non mi ha mai picchiato. Non è mai stato furioso. Quando ho cominciato a stare male, a vomitare, a svenire, a dare di matto, a scappare. Quando ho raccontato ai miei genitori sono arrivati gli schiaffi, le accuse a me, gli sguardi abbassati, la vergogna. Un abuso? Figuriamoci! Bugiardo! Claudio mi aveva detto che accadeva solo con me, che era amore, comunione, fusione di anime. Mia madre e mio padre mi hanno portato dallo psichiatra. La violenza non è mai solo un fatto personale, è una mano ignorante che stritola tutto. Sono stato ricoverato in trattamento sanitario obbligatorio. Legato in un letto. Riempito di farmaci. Studiavo medicina, ho dovuto abbandonare. Mia madre è morta senza aver mai capito. Mio padre scuote la testa, abito con lui, non ho un lavoro, ho 40 anni e non sono mai riuscito a costruirmi un rapporto, a vivere una relazione. Lo zio viaggia con i fedeli, Lourdes, Fatima, Terra Santa, i miracoli. Claudio chissà che fine ha fatta, non ho mai più saputo nulla. I preti cambiano parrocchia, vengono mandati dove le anime hanno più bisogno.

Io, che ho denunciato

 (storia di Laura, 22 anni)

 Io non avevo capito nulla. Sono stati i miei genitori che si sono accorti che qualcosa non andava e, se penso a tutto quello che è accaduto dopo e che ancora succede, affermo che preferirei avessero avuto uno sguardo meno attento. Io avevo 7 anni. Andavo a catechismo. Eravamo tanti bambini e dopo quell’ora passata a riflettere sulla Parola ci portavano a fare merenda e a giocare nel piccolo teatro della parrocchia. Io ricordo solo che Padre Domenico mi prendeva per mano e mi regalava le caramelle all’arancia. Che mi abbracciava con un braccio solo, cullava, sospirava delle parole incomprensibili all’orecchio. Poi stringeva un po’ di più. Ancora una caramella, una carezza sui capelli biondi. Un bacino sulla fronte. Non lo sapevo e non potevo immaginare cosa faceva con l’altra mano. Furono dei piccoli ematomi sul mio fianco sinistro a mettere i miei genitori in allarme. Mia madre è medico, sapeva riconoscere un travaso da urto e quelle cinque macchie rotonde non lo erano. Cinque macchie violacee. Cinque dita della mano sinistra di Padre Domenico che mentre raggiungeva uno dei suoi paradisi stringevano la mia pelle, la mia carne. Una psicoterapeuta infantile è riuscita a farmi dire delle cose. So che i miei genitori andarono da lui e che la giustificazione fu ineccepibile: Laura è tanto agitata, devo trattenerla altrimenti si avventa sugli altri bambini. Queste cose mi sono state raccontate dopo. Dopo che senza capire perché ho smesso di andare a catechismo. E ho cambiato scuola. E poi paese. I miei genitori hanno denunciato tutto. E si sono ritrovati contro non solo la chiesa ma anche tutti gli altri. La gente non vuole essere destabilizzata, non vuole credere che il Male sia ad un passo e che abbia le sembianze di un uomo piccolo e pacato. Lo psichiatra con il quale mi incontro ogni settimana sta cercando di costruirmi intorno una rete di protezione che possa farmi capire come sia possibile che una bambina che viene abusata debba anche vivere l’onta sociale, debba essere additata come un’indemoniata. L’abuso è un crimine ma a cosa serve denunciare se a questo non fa seguito la solidarietà, l’appoggio di una comunità? Padre Domenico è stato sospeso dalla carica, è stato mandato altrove, una missione in India. In fondo si è salvato. Chi è dovuta scappare come in esilio, come un’appestata, sono stata io, la mia famiglia. Ho un fidanzato e non gli ho mai detto nulla, ho paura che possa non capire, che vada via. I miei genitori hanno denunciato. Ma quelle cinque dita si sono moltiplicate. E continuano a stringere.

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