Navigarmi. Istruzioni per l’uso

Amo il nero, l’unico colore in grado di raccontare la luce e la tenebra.

Amo lo spazio, il senso di vuoto.

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Per navigare e per vivere mai puntare verso nord. La strada giusta è solo a sud est. 

 

L’Aquila e le sue Croci: terremoti, lager e sentenze

In un post che gira sui social in questi
giorni si fa il verso alla sentenza choc del Tribunale dell’Aquila
(giudice Monica Croci) nella quale vengono riconosciute in parte
colpevoli le vittime del crollo in via Campo di Fossa nella notte del 6
aprile 2009
: queste, infatti, avrebbero dovuto uscire di casa dopo le prime
scosse e non rientrarvi mai più. Nella foto si “gioca” ad estendere
questa assurdità facendo riferimento ai campi di concentramento: le vittime sono
colpevoli perché non sono scese dal treno che li trasportava, come bestie, al
macello. In realtà la Croci ha “incontrato” un caso simile. Nel mio articolo di
qualche anno fa pubblicato su Il Messaggero (con il titolo: Liliana
Segre si chiama anche Liberatore Del Grosso. Ma il Tribunale aquilano dice che…
)
c’è il racconto di come è andata a finire.     

Liberatore Del Grosso era nato a Ocre (Aq) nel luglio del 1910. Nel 1941,
giorno dell’epifania, fu richiamato alle armi e ascritto al 9° reggimento di
artiglieria.        

Liberatore tornò a casa ma le rigide
condizioni igieniche e alimentari (mangiava solo miglio), unite alla grande
fatica fisica provocata dai lavori forzati, lo avevano fortemente provato
minandone ogni integrità.

Fu inviato in Grecia il 14 agosto 1942, dove
fu fatto prigioniero dalle truppe tedesche il 9 settembre 1943 e condotto in un
vagone piombato nello stalag (termine utilizzato per indicare i
campi di prigionia tedeschi per i prigionieri di guerra) di Fallingbostel.
Qui, dopo essere stato rasato a zero, privato di tutti i propri effetti
personali, vestito da prigioniero e munito del relativo numero identificativo,
ricoverato in una baracca, venne destinato – senza ricevere alcuna
remunerazione – ai lavori forzati. Gli alleati lo liberarono dal campo l’8
maggio del 1945 ma i tedeschi continuarono a tenerlo prigioniero fino al successivo
6 settembre.

A Liberatore, morto a L’Aquila il 9 luglio
del 1983, il Comando Militare ha riconosciuto il 10 febbraio 2016 la Croce
al Merito di Guerra
per il periodo di internamento disumano nello stalag.
Sempre nel 2016 il prefetto Alecci ha concesso a Del Grosso la medaglia
d’onore per l’internamento e il lavoro coatto (prevista dalla legge 296 del
2006).

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Forte dei risultati positivi ottenuti in
cause similari (soldati italiani fatti prigionieri in Germania) Stefano, uno
dei figli di Liberatore, ha citato la Repubblica Federale di Germania per ottenere
il risarcimento dei danni relativi al periodo di prigionia e lavori forzati.
Alle ragioni addotte dagli avvocati Salvatore Guzzi e Fabrizio
Lazzaro
, in nome del popolo italiano il giudice Monica Croci, in
data 25 novembre 2019, ha risposto con sentenza di primo grado nel seguente
modo:

“La domanda deve essere respinta poiché non provata. (…) Non sono state allegate prove, anche di
carattere storico e documentario, inerenti le condizioni di vita ed i
trattamenti ivi (ndr: Fallingbostel) praticati nei confronti degli
internati. (…) La cattura e prigionia dei soldati nemici costituisce in tempo
di guerra un fatto legittimo, così come legittima era all’epoca la possibile destinazione
al lavoro – seppur retribuito o comunque compensato – dei prigionieri. (…) La raggiunta
prova della prigionia (e non anche della destinazione al lavoro) non è in sé
sufficiente a dimostrare l’esistenza di un crimine iuris gentium ai
danni dell’interessato, essendo necessario provare le condizioni di vita nei
campi in questione e la loro riconducibilità ad una forma di sfruttamento
integrante schiavitù e/o l’adozione di trattamenti disumani o comunque lesivi
della dignità umana. (…) È da escludere che le condizioni di vita ed il
trattamento praticato nei confronti dei soldati prigionieri nelle strutture in
cui fu detenuto il Del Grosso ed indicate nei documenti in atti costituiscano
un fatto notorio (ndr: basta interrogare il web https://www.combattentiereduci.it/notizie/ricordi-di-un-internato-in-germania-stalag-xi-b-fallingbostel).
Non può sostituirsi all’accertamento giurisdizionale (…) la concessione di una
onorificenza”.

Con sentenza del 2014 la Corte Costituzionale ha legittimato la richiesta di risarcimento danni alla
Repubblica Federale di Germania ribadendo che la deportazione e i lavori forzati sono, come già
pronunciò nel 1946 il Tribunale di Norinberga, crimini contro l’umanità.

Tradotto: è sufficiente provare di essere stato deportato e costretto ai lavori forzati per avere diritto ad un
risarcimento.
Tradotto ancora meglio: Liliana Segre si chiama anche Liberatore Del Grosso.

“La” Regina Elisabetta, Lillina (e il Cielo del Circeo)

Non è mai stata, la famiglia reale, argomento di mio interesse. L’unica che mi ha incuriosita, decenni fa, è stata Sarah. Trovavo noioso pure il casco di capelloni di Diana, per dire. E trovo antipatica e rigida come un manico di scopa Kate.

Di Elisabetta, che dire?

Dico che la penso con affetto. Dico che spero sia riuscita a trovare qualche nascondiglio, nella sua vita Reale, per vivere la sua vita reale. Dico che spero abbia avuto spazi e occasioni di fuga. Dico che immagino quanto possa essere stato tremendo indossare ogni giorno e ogni notte il peso piombo di un ruolo totalizzante (lo stesso che soffoca chi di mestiere fa per esempio il papa o Alfonso Signorini nel periodo del GF Vip). Spero abbia potuto lanciare un piatto contro una parete. Spero abbia potuto mandare a quel paese il marito – un giorno qualunque – con parole consone, volgari. Vere.

Io le auguro di essere parte di un gioco. La immagino seduta con i suoi cani, colta da un’idea meravigliosa.

La vedo ridere accanto a una cera creata dai geni di Madame Tiuscomecavolosiscrive. Salutarsi. Magari dandosi una sonora schicchera sulla fronte.

La vedo con una valigetta, dentro un prendisole e un cappellino.

“Senti Ca’, me restano ddu mesi o un anno o quello che è. Va a ffa er re, io vado ar mare ar Circeo”.

Buona vacanza, Lillina ❤️

(anche fosse davvero non il Circeo ma il Cielo)

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Gaia e Diana, le mie due pessime madri

di Tiziana Pasetti (Storia vera di Mila O., l’articolo è stato pubblicato sul settimanale Confidenze con il titolo “La figlia spudorata”) – Il bigliettino è piccolo, un normale foglio a quadretti strappato da un block-notes. “Figlia spudorata”, c’è scritto. Non riconosco la calligrafia, e in fondo neanche mi interessa sapere a chi appartenga. Non è firmato, ma c’è un disegnino, un arcobaleno.

Qui all’università la mia storia è girata, ne hanno parlato. E in questo caso io sono in minoranza, io conto meno.

Sono andata via di casa un anno fa, il giorno dopo aver compiuto diciotto anni. Avevo dei soldi, quelli non me li hanno mai fatti mancare, quindi prima ho passato qualche tempo in una pensione e poi ho preso una stanza insieme a delle ragazze di un centro sociale che già conoscevo. Non sono cresciuta in fretta, nel lasso di una notte. Sono praticamente cresciuta da sola da quando sono nata. Grazie alla mia adorata e progressista mamma: devo tutto a lei, la mia maturità, la mia indipendenza, la mia solitudine. Vorrei scrivere anche infelicità, ma non lo farò. Non merito anche questo, non lo merito.

Non so chi sia mio padre. Intendo con questo termine il ‘donatore di sperma’.

Mia madre Gaia era innamorata da un paio di anni di Diana, un amore di quelli pieni di passione. Nessuna lotta contro le famiglie o contro il sistema: mamma aveva un suo lavoro, non aveva mai dovuto nascondere le sue preferenza sessuali a nessuno e non era alla sua prima relazione. Aveva già trent’anni quando decise che voleva un bambino e che lo voleva con Diana. Diana era più grande di lei di tredici anni, quindi decisero che a portare avanti la gravidanza sarebbe stata la più giovane delle due.

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L’Aquila, Pronto Soccorso Pediatrico: 10 e lode

Intorno alle 15 e 30 di oggi ho sentito mia figlia, la minore, piangere. Senza soffermarmi sulla motivazione – non è per questo che scrivo -, l’ho fatta vestire per accompagnarla al Pronto Soccorso.

Scrivo per fornire questi dati: sono arrivata al San Salvatore alle 15 e 50 circa. Al pre-triage le infermiere sono state veloci e gentili. Al pronto soccorso pediatrico, dove siamo state immediatamente smistate, mia figlia è stata medicata dopo cinque minuti. Ambiente pulito, igienizzanti e guanti disponibili all’entrata per i piccoli pazienti e il genitore accompagnatore, staff medico e paramedico sorridente e sereno.

Sono le 17 e 27. Siamo rientrate a casa già da un po’. In una Zona Rossa, in tempo di Covid19, mentre imperversano centinaia di polemiche sulla sanità (soprattutto quella legata alla possibilità di essere ascoltati e/o curati con prontezza ed efficacia per altre patologie o eventi accidentali).

Scrivo anche per dire, di nuovo e pubblicamente, grazie.